Insomma, una chiara organizzazione generale, istituzionale, economica e comunicativa, in cui i divari e le disuguaglianze, tra potenti e non potenti, si accrescono di continuo e la cui unica cifra emblematica è la logica sistemica di produzione e marketing: tutto ciò è molto palese e non andremo certo a scomodare oltremodo l’applicazione di vetuste forme di critica marxista, per appurare che l’ideale sportivo del calcio non è più qui da tempo. Ovviamente, la sociologia ha però questioni molto più pressanti e complesse cui dedicarsi, che non la vicenda del calcio globale, ma forse a queste osservazioni potrebbero interessarsi con maggiore attenzione almeno i tanti media e giornalisti che, come è noto, gravitano attorno al mondo del calcio e il cui ruolo dovrebbe anche essere, in qualche misura, volto a trasmettere quella che si definiva cultura sportiva, ossia una preliminare comprensione storico-sociale e etica dello sport. È diventato un business, e non sarebbe neppure troppo utopico pensare che anche sulla fascia di capitano, possa in futuro intraprendersi una strada del genere legata alla pubblicizzazione di marchi sportivi.
Non ci si illude certamente che questo possa accadere e neanche che ciò possa avere qualche importanza; in fondo, il mondo del XXI secolo appare disperatamente sempre più senza redenzione, un mondo in cui davvero sembra impossibile pensare un altro futuro e non ripetere gli stessi errori legati alle evoluzioni ineffabili della modernità: così inutilmente remiamo, barche controcorrente, risospinti senza sosta nel passato. Coppa del Mondo FIFA vinta dagli Azzurri nel 1982 divenne un evento così penetrato dentro la storia d’Italia e nell’immaginario collettivo tanto da costituirsi come un tratto dell’identità nazionale. Ormai un quarto di secolo fa, è caduto il muro di Berlino, sancendo la fine dei blocchi e della contrapposizione USA-URSS e portando il mondo in un’epoca più disincantata e sostanzialmente post-ideologica. La caduta del muro ha sfaldato potenze calcistiche nazionali, come erano l’URSS e la Jugoslavia, in tanti piccoli Stati e, se una volta le squadre dell’Est europeo competevano spesso alla pari con quelle occidentali, in incontri che avevano un che di epico-ideologico, poi, progressivamente e inesorabilmente, esse sono state marginalizzate dal calcio che conta: non sembra un caso che l’ultima squadra dell’Est Europa a vincere la Coppa dei campioni sia stata la Stella Rossa di Belgrado nel 1991(ultima edizione, peraltro, della Coppa dei campioni tradizionale tutta con eliminazione diretta prima dell’avvento della formula con gironi tipica della Champions’ League), poco dopo la caduta del muro e che, da allora sino a tutt’oggi, per le squadre dell’Est, nel più prestigioso torneo, come massimo risultato, si può registrare solo una semifinale della Dinamo Kiev nel 1999. Lo sbalzo situazionale è innegabile se si ricorda che nel decennio precedente 1980-89, invece, oltre alla vittoria della Steaua Bucarest nel 1986, vi furono ben 6 semifinaliste dell’est(CSKA Sofia nel 1982, Widzew Lodz nel 1983, Dinamo Bucarest nel 1984, Dinamo Kiev nel 1987, Steaua nel 1988) e la stessa Steaua perse la finale nel 1989. Si deve poi rilevare che la liberalizzazione delle frontiere e dei vincoli contrattuali (questi ultimi alterati a metà anni Novanta dalla legge Bosman, che consentiva, ai calciatori il cui contratto scadeva, di trasferirsi da un club a un altro senza che il club che acquisiva il giocatore con contratto scaduto, pagasse alcuna somma alla squadra precedente come invece accadeva in passato) ha portato a squadre costituite interamente da stranieri: gli stili e le tattiche di gioco si sono, di conseguenza, maggiormente uniformati e, con l’avvento delle maglie personalizzate(da metà anni Novanta), con numero fisso e nome del calciatore sulla schiena – l’esempio forse più simbolico dell’individualizzazione tipica del modello di società neoliberale – il legame tra ruoli e numeri e specifiche tradizioni è in massima parte volatilizzato: il 45 di Mario Balotelli come il 21 di Andrea Pirlo, o il 99 di Samuel Eto’o, tanto per citare qualche calciatore-icona dei nostri tempi, non hanno, neanche lontanamente, alcun significato tattico, sono al contrario la spia di una destrutturazione.
Per gli scontri del 2005 si e’ aperto oggi, ed e’ stato subito rinviato, il processo a carico di 45 calcianti delle 4 squadre in competizione: 43 sono a giudizio per rissa aggravata e 2 per lesioni volontarie. Papu sono invece ispirate dalla semplice creatività, quella creata dalla Fiorentina è invece dedicata alla memoria di Astori. De Rossi, il Papu Gomez, e la Fiorentina sono stati i primi a non piegarsi alla novità introdotta quest’anno. Lo scollo a V ha un inserto giallo che ricorda la casacca spagnola del 1988. All’interno del colletto è ricamata la scritta “Campeones del Mundo 2010”. I calzoncini e i calzettoni sono gli stessi del mondiale. Soprattutto nelle versioni dopo il 1965. In quell’anno, infatti, l’iconico allenatore Bill Shankly ha messo in soffitta gli originali pantaloncini bianchi. Sono invece 54 gli indagati dalla procura del capoluogo toscano per la rissa scoppiata all’inizio della prima partita dell’edizione del 2006, con in campo Bianchi e Azzurri. Esempi di omologazione nel calcio non sono mai mancati, specialmente quando parificare i diritti ha evitato pesanti ingiustizie.
Ancora, i grandi club occidentali, ormai simili a multinazionali, gestiscono fatturati iperbolici (indicativamente, negli anni 2000, per identificare il Real Madrid, è stato spesso utilizzato l’appellativo di Galacticos) e sono coinvolti in flussi di capitale e influenze transnazionali come quelle di oligarchi russi e di sceicchi arabi: questi club attraverso la nuova formula della Champions’ League costituiscono praticamente una lega elitaria continuamente arricchita da sponsor e diritti economici e le squadre potenti e vincenti restano sempre le stesse; per tutte le altre squadre il massimo traguardo è una partecipazione solo ai gironi preliminari del torneo. Sino alla fine degli anni Ottanta, le squadre di club avevano un una specifica connotazione nazionale e numero limitato di stranieri (addirittura i giocatori delle squadre dell’est non potevano trasferirsi all’estero prima di aver raggiunto l’età dei 28-30 anni e comunque con enormi difficoltà e limitazioni burocratiche); alla Coppa dei campioni partecipava solo chi vinceva il rispettivo campionato, il numero di partite in tv era più contenuto e non si giocava ogni giorno; c’era una ritualità nei tempi e nei momenti, un rispetto(se non un culto) quasi reverenziale per certe tradizioni, legate a colori delle maglie(oggi non di rado stravolte) e stili di gioco, come quello nordeuropeo atletico e mai domo, quello sudamericano tecnico e spettacolare, quello mediterraneo scaltro e astuto, quello slavo sornione e un po’ misterioso; in fondo, quegli stili di gioco rimandavano, sociologicamente, allo spirito dei popoli che li attuavano.
Per maggiori dettagli su maglietta di calcio gentilmente visitate il nostro sito.